martedì 6 marzo 2018

Validità delle clausole vessatorie nei contratti



Nei contratti conclusi mediante moduli o formulari, è valida la clausola vessatoria sottoscritta dalla parte, anche se scarsamente leggibile, giacché è onere del contraente debole comportarsi con diligenza e chiedere che gli venga fornito un modulo contrattuale meglio leggibile; nel caso in cui non agisca in tal senso, questi non può lamentare di non aver compreso la portata della clausola da lui firmata.
Così ha deciso la Suprema Corte, con l'ordinanza 12 febbraio 2018, n. 3307, in relazione ad un contratto di utenza telefonica.
Con l’occasione la Corte di Cassazione ha sottolineato quale sia la corretta modalità di redigere le clausole vessatorie in un contratto predisposto da una parte contrattuale (moduli prestampati).
La giurisprudenza di legittimità in materia (Corte Cass. 15278/2015; Corte Cass. 22984/2015), sostiene che le clausole vessatorie debbano essere indicate specificamente in maniera idonea, con un numero o una lettera che le contraddistingua, per suscitare l'attenzione del sottoscrittore - che dovrà poi apporre la sua firma (Corte Cass. 4452/2006). Pertanto è sufficiente il richiamo, mediante numero o titolo, alla clausola stessa – senza la sua trascrizione integrale – giacché in tal modo si permette al sottoscrittore di conoscerne il contenuto (Corte Cass. 12708/2014).
Secondo l’insegnamento dei supremi giudici, il discrimine per la validità delle forme di specifica approvazione ex art. 1341 c.c. è il seguente: il richiamo al numero della clausola vessatoria è sufficiente a farla conoscere al contraente, invece, tale non è il mero richiamo cumulativo o in blocco, a clausole vessatorie e non, che si esaurisca nella mera indicazione del numero.

Avv. Alessio Baù

giovedì 1 marzo 2018

Pensione di reversibilità anche al coniuge separato con addebito



Nella sentenza n. 2606 del 2 febbraio 2018 la Corte di Cassazione torna ad occuparsi di pensione di reversibilità per riconoscerne il diritto alla fruizione in capo anche all’ex coniuge separato con addebito, in qualità di erede del coniuge defunto titolare del trattamento previdenziale.

Il Supremo Giudice del Lavoro ricorda, in particolare, come la questione sia stata risolta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 286 del 28 luglio 1987, che qualifica la pensione di reversibilità come una forma di tutela previdenziale nella quale l’evento protetto è la morte, cioè, un fatto naturale che, secondo una presunzione legislativa, crea una situazione di bisogno per i familiari del defunto, i quali sono i soggetti protetti.

La Cassazione osserva che in essa non emergono elementi che autorizzino l’interprete a ritenere che residuino differenze di trattamento per il coniuge superstite in ragione del titolo della separazione, e che, soprattutto, in essa non vengono indicate condizioni ulteriori, rispetto a quelle valevoli per il coniuge separato senza addebito, ai fini della fruizione della pensione di reversibilità.

In forza di ciò, ad entrambe le situazioni (coniuge separato con e senza addebito) risulta applicabile l’art. 22, Legge n. 903/1965, il quale non richiede, a differenza che per i figli di età superiore ai diciotto anni, per i genitori superstiti e per i fratelli e sorelle del defunto, quale presupposto per il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità, la vivenza a carico e lo stato di bisogno del coniuge superstite al momento del decesso ma unicamente l’esistenza del rapporto coniugale con il coniuge defunto pensionato.

Avv. Alessio Baù