Pagine

giovedì 21 giugno 2018

Parlare male sui social del proprio datore di lavoro è motivo di licenziamento


I social network sono ormai entrati prepotentemente nella vita delle persone. Le piattaforme social vengono spesso utilizzate anche per esternare opinioni e commenti in merito alla propria attività lavorativa.
Quando il linguaggio impiegato travalica i limiti della libertà di espressione, possono, ex art. 2119 cod.civ. esservi ripercussioni anche gravi sulla situazione lavorativa, fino a giungere al licenziamento.
E’ quanto ha recentemente ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10280 del 27.04.2018.
Il caso affrontato dalla Suprema Corte ha riguardato il licenziamento di una dipendente che, attraverso il canale Facebook, aveva utilizzato termini gravemente offensivi nei riguardi dell‘azienda presso la quale lavorava e del rappresentante legale della stessa.
La lavoratrice aveva giustificato la propria condotta sostenendo, tra l’altro, che si fosse trattato di un semplice sfogo in un contesto, quale quello di Facebook, in cui è usuale l’utilizzo di un linguaggio più disinibito.
I Giudici hanno invece ritenuto il licenziamento intimato da parte dell’azienda legittimo e proporzionato alla gravità dei fatti, tenuto conto del contenuto offensivo e della diffusione tra gli utenti del social network del messaggio postato dalla dipendente, circostanze che integrano gli estremi della diffamazione ex art. 595 cod.pen.
La Corte ha infatti rilevato che sussiste una ipotesi di diffamazione tutte le volte in cui, come nel caso di specie, la diffusione del messaggio dai contenuti offensivi consenta la circolazione dello stesso tra un gruppo allargato di persone e sia facilmente identificabile il destinatario delle offese (nel caso di specie l’azienda e il suo legale rappresentante), essendo a tal fine irrilevante la specificazione o meno del nominativo dei medesimi.