I social network
sono ormai entrati prepotentemente nella vita delle persone. Le piattaforme
social vengono spesso utilizzate anche per esternare opinioni e commenti in
merito alla propria attività lavorativa.
Quando il
linguaggio impiegato travalica i limiti della libertà di espressione, possono,
ex art. 2119 cod.civ. esservi ripercussioni anche gravi sulla situazione
lavorativa, fino a giungere al licenziamento.
E’ quanto ha
recentemente ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10280 del
27.04.2018.
Il
caso affrontato dalla Suprema Corte ha riguardato il licenziamento di una
dipendente che, attraverso il canale Facebook, aveva utilizzato termini
gravemente offensivi nei riguardi dell‘azienda presso la quale lavorava e del
rappresentante legale della stessa.
La
lavoratrice aveva giustificato la propria condotta sostenendo, tra l’altro, che
si fosse trattato di un semplice sfogo in un contesto, quale quello di
Facebook, in cui è usuale l’utilizzo di un linguaggio più disinibito.
I
Giudici hanno invece ritenuto il licenziamento intimato da parte dell’azienda
legittimo e proporzionato alla gravità dei fatti, tenuto conto del contenuto
offensivo e della diffusione tra gli utenti del social network del messaggio
postato dalla dipendente, circostanze che integrano gli estremi della
diffamazione ex art. 595 cod.pen.
La
Corte ha infatti rilevato che sussiste una ipotesi di diffamazione tutte le
volte in cui, come nel caso di specie, la diffusione del messaggio dai
contenuti offensivi consenta la circolazione dello stesso tra un gruppo
allargato di persone e sia facilmente identificabile il destinatario delle
offese (nel caso di specie l’azienda e il suo legale rappresentante), essendo a
tal fine irrilevante la specificazione o meno del nominativo dei medesimi.